Guida alla cultura della dieta: come riconoscerla e smantellarla

Cultura della dieta
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La cultura della dieta non ha una definizione ben precisa, perché racchiude tutto un insieme di comportamenti, credenze e narrazioni che permeano il nostro quotidiano al punto tale da essere diventata la normalità. In generale, essa può essere riassunta nel sistema binario della grassezza come cattiva e della magrezza come buona, ma i suoi modi di agire e presentarsi sono molteplici, a volte anche non immediatamente riconoscibili. Quali sono, quindi, le false e pericolose credenze che ruotano attorno alla cultura della dieta, e come possono essere confutate?

Il primo punto riguarda il cibo in sé e il modo in cui se ne parla: spesso gli alimenti vengono divisi in “buoni” e “cattivi”, dove i primi sono quelli che apportano poche calorie, e i secondi quelli che contengono elementi come i grassi o i carboidrati (che sono comunque essenziali per il benessere del corpo ma che vengono demonizzati). L’obiettivo è quello di provocare un senso di colpa legato al consumo di un determinato tipo di cibi, perché allontanano dalla forma fisica corretta, cioè quella magra. Questo meccanismo è funzionale all’arricchimento dell’industria del benessere, che altro non è che un’industria che guadagna grazie ai modelli corporei propinatici dalla cultura della dieta: bibitoni dimagranti, schemi alimentari ferrei, programmi di allenamento che promettono di bruciare quelle calorie, sono solo alcuni dei metodi che fanno leva su questa netta divisione tra giusto e sbagliato, tra magro e grasso, lucrando sulla stessa insoddisfazione per il proprio corpo che essi causano. Infatti, l’unico modo per non cadere in questi circoli viziosi è quello di ascoltare sé stess3 e i propri bisogni, abbandonando questo tipo di divisioni completamente infondate.

Spesso, inoltre, la cultura della dieta si nasconde dietro la giustificazione della salute: la patologizzazione dei corpi grassi, cioè la credenza per cui chi rientra nello spettro della grassezza ha o avrà sicuramente qualche problema di salute, ha una grossa influenza sulla percezione di queste persone nella società. I canoni corporei e i loro strumenti di misurazione sono fortemente sessisti, razzisti ed eurocentrici: è impossibile quindi riconoscere se un fisico sia in salute o meno tramite il loro utilizzo, è anzi fortemente discriminatorio. I parametri sono molteplici e tutti estremamente soggettivi, perciò, se a prima vista patologizziamo un corpo solo perché grasso, è evidente che i nostri occhi siano offuscati dai pregiudizi: esattamente come non si può diagnosticare nulla a una persona magra solamente guardandola, lo stesso vale anche per una persona grassa.

Cultura della dieta
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La cultura della dieta, quindi, attribuisce un valore morale non solo al cibo e alle azioni quotidiane, ma anche agli stessi corpi: una persona grassa sarà considerata pigra, svogliata, incapace di controllarsi, incurante di sé stessa; una persona magra sarà sempre sicuramente più ben vista e tenuta in una più alta considerazione. Tutto ciò si traduce nel cosiddetto thin privilege, letteralmente il “privilegio di essere magr3”: esso è il risultato più diretto della cultura della dieta, perché non riguarda solamente dei pregiudizi che abitano la mente delle persone, ma delle vere e proprie discriminazioni. Le persone grasse hanno oggettivamente moltissimi svantaggi nella società odierna, che sono diversi in base a come ci si posiziona sullo spettro della grassezza: i più comuni sono non riuscire a trovare vestiti della propria taglia nei negozi, o sentirsi dire che dimagrire è la cura a tutti i mali, ma ci sono anche persone che non vengono assunte o vengono licenziate dai posti di lavoro, per cui non esistono delle sedute adatte in luoghi pubblici o privati, a cui non viene fornita una diagnosi accurata perché non si va mai oltre il peso.

Le conseguenze della cultura della dieta sono positive solamente per chi ci guadagna sopra, perché il risultato generale comprende la discriminazione di una parte della popolazione, gravi carenze a livello sanitario e terreno fertile per lo sviluppo di disturbi del comportamento alimentare, specialmente tra le persone giovani. Non ci sono vantaggi, e se ci sono sono apparenti: sentirsi bene dopo un dimagrimento, infatti, è conseguenza diretta del fatto che si soffre meno dello stigma sul grasso, che è causato da questa stessa società e cultura.

La liberazione dei corpi passa anche e soprattutto dalla distruzione di quel sistema di pensiero per cui, tra essi, esiste una gerarchia ben precisa. Una volta smantellato questo preconcetto, slegato il cibo e il fisico da un valore morale e data a tutt3 una pari dignità a prescindere dalla forma, solo allora potremo chiaramente vedere le fallacie di una cultura in cui, al momento, siamo tutt3 immers3. Nel frattempo, quello che possiamo fare è allenarci a riconoscerla e a non lasciarci inghiottire da essa.

Giulia

Donne e politica: i numeri nel mondo

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Nell’ultimo decennio, in alcuni paesi del mondo, si sono sviluppate sempre più azioni per fare in modo che le donne avessero più rappresentanza politica nei luoghi decisionali. Questi provvedimenti temporanei hanno come obbiettivo quello di rendere più paritario l’accesso alle posizioni politiche e mostrare come le donne possano essere parte della vita politica del loro paese, immagine più o meno ancora interiorizzata nella mente della maggior parte della popolazione. Per millenni, in tutto il mondo, esse sono state escluse dalla vita politica e dalle scelte decisionali ed economiche perfino della loro famiglia e ciò ha portato a evidenti mancanze sia sociali/civili sia culturali, facendo appunto interiorizzare agli uomini, alle stesse donne e a tutte le persone in generale la visione che le decisioni importanti siano essenzialmente maschili.

Non è nemmeno passato un secolo da quando in Italia le donne hanno ottenuto il diritto di voto (era il 1945, tra gli ultimi paesi in Europa), e questo non può che essersi riflesso nella vita sociale e culturale del nostro paese, ancora altamente patriarcale e con numeri molto bassi di partecipazione femminile. In un report sulla Partecipazione politica dell’ISTAT del 2019, “si informa almeno settimanalmente di politica solo il 45,8% delle donne (60,2% di uomini); parla di politica almeno una volta a settimana il 25,3% (41,1%) e ascolta dibattiti politici l’11,9% (18,2% di uomini). Il divario di genere è legato all’età, è inesistente tra i più giovani (14-17 anni) e cresce progressivamente a partire dai 20 anni, diventando particolarmente evidente dopo i 60”. La popolazione più anziana è ovviamente più abituata a vedere come maschili i poteri politici e decisionali in generale, ma complice è anche il background sociale e la minore possibilità di accedere alle informazioni (l’uso di internet, alfabetizzazione, scolarizzazione). Inoltre il divario sembra dipendere anche dai ruoli di genere imposti (che ricordiamo essere razzisti e classisti), per cui esso “è importante tra casalinghe (il 41% non si informa mai di politica) e occupate (23,8%) e si mantiene costante a tutte le età”. Da questa visione generalizzata ancora molto patriarcale, non possono che esserci numeri particolarmente tristi per l’Italia e il suo modello rappresentativo: sempre da un report ISTAT del 2019, si vede come l’86% di chi ricopre la carica di sindacə nel nostro paese è uomo. Per quanto riguarda il discorso più istituzionale del governo italiano, secondo i dati analizzati da Lab24, dal 1945 al 2020 “su 4.864 presidenti, ministri e sottosegretari che hanno giurato al Colle appena 319 sono state donne. Il 6,56% del totale“. Il governo Draghi è quello con più partecipazione femminile della storia e sembra volerci far vedere come una vittoria il fatto che 8 ministre su 23 siano donne (cinque delle quali sono senza portafoglio e due sono tecniche), ma si può festeggiare per avere un terzo de3 ministr3 che rappresentano il 51,3% della popolazione?

Negli stati dell’Unione Europa abbiamo più o meno numeri simili: le leader femminili dei maggiori partiti politici rappresentano il 18% (nel mondo rappresentano il 19%) e il 30% de3 ministr3 sono donne. Nel Parlamento europeo esse sono il 36% dei membri, con i paesi nordici come Svezia e Finlandia che toccano praticamente quota 50%. Infatti, i numeri sono nettamente migliorati in quei paesi che hanno adottato misure straordinarie (come appunto le nostrane quote rosa) per aumentare la rappresentanza femminile: la Francia, negli ultimi anni, ha aumentato questa percentuale di oltre il 20% rispetto agli altri paesi dell’UE. Seppur nell’Agenda delle istituzioni europee l’uguaglianza di genere nella politica è un tema ormai fondamentale e molto discusso nelle varie sedi, i numeri continuano ancora a essere molto bassi, e nel processo di crescita dei vari Stati molte donne continuano a rimetterci in termini sociali, culturali, legali, di salute (si guardi, per esempio, alla Polonia, dove le donne rappresentano il 29% del loro Parlamento).

Nel 2020, solo il 23,6% del Congresso degli Stati Uniti d’America, il paese (a loro detta) della democrazia e della giustizia, era formato da donne, che rappresentano anche il 25% del Senato e il 23,2% della Camera dei Rappresentanti, di cui all’incirca il 40% sono di colore. Il 26,6% de3 sindac3 american3 sono donne, 27 delle quali rappresentano le città più grandi degli USA e 10 delle quali sono nere. Anche nel nascente governo di Joe Biden e Kamala Harris i numeri si aggirano intorno a queste percentuali, nonostante il divario tra Democratici e Repubblicani sembri essere abbastanza netto (tra le 142 donne che siedono nel Congresso, 105 sono democratiche e 37 repubblicane).

Gli unici quattro paesi nel mondo ad avere più o meno la metà de3 rappresentanti donne sono Ruanda (61%), Cuba e Bolivia (53%), Emirati Arabi (50%). Nel continente africano, la crescita della rappresentanza degli ultimi anni è stata molto importante: per esempio, nella Repubblica di Gibuti, che nel 2000 aveva zero donne nel suo Parlamento, nel 2019 poteva contare sul 30% di donne tra 3 su3 rappresentanti. In Etiopia, dal 2017 al 2019, si è passati dal 10% al 47,6% di rappresentanza femminile. La percentuale più bassa spetta al Marocco, con solo il 5,6% di donne che compongono il suo governo, e quella più alta appunto al Ruanda, nella cui Costituzione, nata nel 2003 dopo il genocidio degli Tutsi, si afferma il dovere di lasciare almeno il 30% dei posti del Parlamento alle donne.

La situazione nell’Asia dell’Est vede la Cina come prima Repubblica con maggiore rappresentanza femminile nel parlamento nazionale (24,9%) contro un bassissimo 10,2% del vicino Giappone (dove solo lo 0,9% de3 sindac3 sono donne) e uno storico 17% della Corea del Sud, che ha toccato la maggior rappresentanza femminile dell’Assemblea nazionale della sua storia nel 2018. Per quanto riguarda l’Asia del Sud, la situazione in Afghanistan è migliorata nettamente negli ultimi anni arrivando al 27% della rappresentanza parlamentare. Il paese con la percentuale più alta risulta essere il Nepal che, dall’ultima elezione del 2008, tocca quota 33% di donne nel Parlamento.

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I dati in tutto il mondo mostrano ovunque un miglioramento delle condizioni di accesso alle posizioni politiche e decisionali per le donne, ma generalmente il numero è ancora molto lontano dalla parità (si parla di altri quarant’anni per iniziare a vederla davvero). Se il discorso dovesse poi comprendere le condizioni in politica di donne nere, disabili e appartenenti alla comunità LGBTQIA+, le percentuali non sfiorerebbero nemmeno l’1%. Pur con la consapevolezza che le minoranze siano appunto un numero più basso rispetto alla maggioranza, i numeri di rappresentatività non porterebbero comunque a un risultato equo: le donne risultano essere più o meno quanto gli uomini ma in media non toccano nemmeno il 20% di rappresentazione parlamentare; e anche i membri della comunità LGBTQIA+ sono in netta crescita in tutto il mondo (non per moda, ma per le maggiori libertà di esprimersi rispetto agli anni passati), senza vedere troppi risultati politici di questa apertura. La lotta per la rappresentanza ovviamente non si deve fermare ai primi risultati né accontentarsi delle quote di genere, ma deve portare avanti una cultura inclusiva che porti tutt3 a vedersi rappresentat3 nel loro Parlamento. Aumentare il numero di donne e di persone appartenenti alle minoranze non significa un aumento di efficienza e di buona politica, ma significa aumentare la democrazia, la rappresentatività del popolo, il suo essere, il suo orientamento, la sua sovranità.

Beatrice

La bellezza non è un valore: standard e discriminazioni

Standard di bellezza
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Nella società contemporanea, il grado di aderenza ai canoni estetici è ancora un fattore discriminante sia a livello sistemico che individuale. Le persone che non sono considerate “socialmente attraenti” sono oggetto di pregiudizi nell’ambiente medico, lavorativo e sociale, ma subiscono anche pressioni psicologiche tramite esperienze personali di bullismo, invisibilizzazione, desessualizzazione o ipersessualizzazione, per citare alcuni esempi. Questi fantomatici standard di bellezza ci dicono come apparire, che forma deve avere il nostro corpo, quale deve essere il colore della nostra pelle; giudicano quali nostre caratteristiche siano imperfezioni e quali no, mentre lucrano sulle insicurezze che essi stessi creano. Per quanto dipendano comunque da fattori socio-culturali, anche se lo sguardo occidentale ormai ha molta influenza in quasi tutto il mondo, essi affondano comunque le proprie radici nel patriarcato, nel capitalismo, nella grassofobia, nel razzismo, nell’abilismo e in ogni tipo di discriminazione sistemica presente nella società.

I canoni di bellezza, infatti, riflettono gli stereotipi di genere: il corpo delle donne viene modellato dallo sguardo maschile e considerato valido solamente in base al livello di attrazione che esso genera, o in base a quanto si mostri legato alla fertilità e alla maternità. Per questo motivo, oggi, i corpi femminili ideali sono generalmente magri, minuti, ma con tutte le curve “al punto giusto”. Al contrario, quello maschile deve corrispondere allo stereotipo della virilità, perciò l’uomo deve essere alto e muscoloso, con una figura che ispiri un senso di protezione nei confronti della donna debole. Come si può vedere, questi canoni estetici sono fortemente patriarcali e binari, per cui escludono tutta una fetta di persone queer i cui corpi non possono rientrarvi e ne sono, quindi, danneggiati.

Il capitalismo, poi, ha influito e influisce molto sulla definizione di questi standard, perché le industrie guadagnano soldi sulle insicurezze che provocano. Definendo “difetti” o “imperfezioni” delle normali caratteristiche corporee e facciali (come rughe, peli, cellulite, ecc), le persone – specialmente se donne o female presenting – sono portate a spendere per correggerle e assomigliare sempre più ai modelli propinati dai mass media e dalle pubblicità. Ovviamente, non c’è nulla di male nel prendersi cura del proprio corpo e truccarsi, ma è giusto contribuire a perpetrare un modello escludente, come quello della bellezza, e lucrare sulla mancanza di autostima e di autodeterminazione che esso produce? (Spoiler: no).

Tra le varie industrie del beauty, quella della dieta è anche una delle più dannose perché, proponendo regimi di cibo restrittivi e corpi ideali a cui conformarsi è un dovere, provoca – oltre che discriminazione – anche danni psicologici molto gravi che possono sfociare in disturbi. La grassofobia è una componente fondamentale di ciò che oggi viene considerato “bellezza”: essere grass3 significa essere condannat3 all’esclusione dall’ambiente lavorativo, ai pregiudizi in ambito medico, agli insulti e alla mancanza di degna rappresentazione perché essere bell3 – che è anche essere magr3 – è una prerogativa imprescindibile per essere vist3 e ascoltat3 nella società.

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La grassofobia, inoltre, affonda le sue radici nel razzismo: le persone di colore erano viste come amanti del cibo e mancanti di autocontrollo, perciò la connessione con l’essere grass3 e la conseguente discriminazione fu immediata. Comunque, i pregiudizi razziali hanno anche un altro tipo di influenza sugli standard di bellezza, poiché più la pelle è chiara, più la persona si avvicina all’apice della piramide. L’industria dei cosmetici rafforza questo pregiudizio, per esempio creando molto più make up adatto alla pelle bianca che alla pelle nera, alimentando il senso di inadeguatezza. A causa di questo colorismo, infatti, si sono diffuse delle tecniche di sbiancamento della pelle, specialmente nell’Asia dell’est, che mostrano come l’aderenza agli standard di bellezza eurocentrici si sia sempre più diffusa nel mondo (un altro esempio sono le discriminazioni subite dalle donne nere per i propri capelli).

Il fatto che gli standard di bellezza siano profondamente abilisti esclude a prescindere le persone con disabilità, che si allontanano da questa presunta “perfezione” che permette di vivere una vita dignitosa. Esse vengono completamente tagliate fuori da questa narrazione tossica, e questo ha un impatto molto forte sulle loro vite, tanto che spesso vengono desessualizzate e discriminate perché non corrispondono agli ideali che la società pone come attraenti.

Anche l’ageismo influenza notevolmente ciò che può o non può essere giudicato apprezzabile in una persona, e che perciò determina il suo status sociale: le rughe, per esempio, sono una delle caratteristiche che si viene più invitat3 a nascondere dall’industria cosmetica. In generale, le donne o persone female presenting, sono considerate belle quanto più la loro figura sembra infantile: un corpo minuto, privo di peli, capelli lunghi e mai grigi che non mostrano i segni del tempo.

Per tutti questi motivi, è impossibile non riconoscere che la bellezza, in quanto valore, deve essere smantellata: non si possono considerare degne le persone quanto più corrispondono a degli ideali che si portano dietro secoli di discriminazione. Per quanto oggi siano stati fatti dei passi avanti in questo senso, essi sono stati volti ad allargare questi standard che, invece, andrebbero abbattuti: non si parla, infatti, di gusti personali (anche se è doveroso chiedersi: quanto essi sono influenzati da questi continui bombardamenti?), ma di dare dignità a tutt3, togliendo ogni tipo di riferimento, specialmente se oppressivo.

Giulia

Le mancanze del femminismo bianco

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Il bisogno di intersezionalità è nato dalle colpe e dalle lacune del femminismo bianco, un movimento focalizzato sui bisogni e i diritti mancanti delle donne bianche che ha però escluso i problemi dati dalla razza e dal relativo razzismo. La costruzione e il bisogno di un movimento che fosse non solo antisessista, ma anche antirazzista, anticapitalista e anticlassista è divenuto necessario e vitale soprattutto a metà del Novecento, quando la voce delle persone nere iniziò a urlare così forte da far tremare le pareti di un intero sistema che per secoli aveva sfruttato milioni di persone facendo finta di niente, come se anni di violenza e sopraffazione non fossero mai esistiti. Le grandi nazioni civili e democratiche, le più ricche e potenti del mondo, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale e nel periodo storico ricostitutivo di tutti i pezzi dell’umanità distrutta, si sono sempre dimenticate di una parte della storia su cui però si basava la maggior parte del loro potere: lo schiavismo, il colonialismo e l’imperialismo.

Queste lacune storiche hanno portato alla formazione di movimenti anche sociali che però mancavano di informazione, di ascolto e di interesse verso una grande fetta della società stessa: la popolazione nera. Il femminismo bianco segue anch’esso questa corrente e, nella rivendicazione dei diritti basilari delle donne, ha continuato e continua ancora a oggi a dimenticare i problemi che la maggior parte di esse affronta, che sono non solo legati al genere e al sesso, ma anche alla razza e alla classe sociale (questi spesso, purtroppo, connessi tra loro), all’orientamento sessuale, alla condizione abile del loro corpo e della loro mente. Il mancato accesso all’istruzione, al trasporto, ai luoghi sociali e civili e a un certo tipo di lavoro venivano e continuano a non essere considerati nella narrazione più mainstream di un femminismo che rivendica il mancato accesso alle posizioni di potere prettamente maschili, ma dimentica che il potere è anche stato esclusivamente bianco: il messaggio che si dovrebbe far passare non è che ci dovrebbero essere più donne padrone, né più donne padrone nere, ma che non dovrebbero più esistere padron3, così da non esserci più schiav3. L’intersezione tra femminismo, antirazzismo e lotta sociale marxista venne infatti portata avanti da una figura che oggi possiamo definire miliare come Angela Davis, che sosteneva come il sessismo ha sempre avuto anche una componente razzista e da cui deriva la necessità dell’antisessismo di contenere per forza di cose l’antirazzismo (doveroso anche ricordare le sue dichiarazioni secondo cui le radici dell’omofobia si intrecciavano con il razzismo, il sessismo e lo sfruttamento economico). Il patriarcato è nato su enormi fondamenta composte da tutti i tipi di intolleranza verso chi è diverso dall’uomo bianco etero cis borghese, e la battaglia atta a distruggerlo deve comprendere ogni discriminazione, altrimenti non lo si vedrà mai crollare.

Il femminismo bianco è un movimento che essenzialmente spende le proprie energie per entrare nel sistema de3 potent3 e creare uno spazio padronale più inclusivo verso le donne: esso è costituito da tutt3 coloro che combattono per un salario equo senza pensare anche alla lotta per un’istruzione equa che aumenterebbe le possibilità di prendere uno stipendio dignitoso per tutt3; da coloro che combattono per l’aborto senza pensare al fatto che per secoli le donne nere hanno avuto un controllo serrato e obbligato sulle loro capacità riproduttive (fino agli anni ’70, la sterilizzazione obbligata era legale in 32 stati USA) e che, ancora oggi, vengono considerate poco capaci di prendere decisioni di tale importanza. Per questo la lotta all’aborto deve riconoscere i suoi privilegi: abortire è un diritto e si deve ovviamente combattere per la sua esistenza, ma nei paesi dove si può abortire più o meno in maniera libera esso è anche un privilegio. Il sistema sanitario della maggior parte dei paesi nel mondo è estremamente razzista e classista: se si vuole combattere per un aborto libero, si deve anche riconoscere che per alcune è stato ed è ancora un obbligo, e per altre risulta essere un beneficio di cui non possono godere. E mentre le donne bianche possono combattere e creare movimenti contro per esempio i reggiseni e la depilazione, spesso si dimenticano che la maggior parte delle donne nere deve pensare ancora a come sopravvivere alla nostra società, sperando di non essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato o di non incontrare il poliziotto con il grilletto facile. Esse vengono escluse dai vari benefici che l’essere bianca comporta: stare a casa e fare la casalinga, che è comunque una scelta privilegiata, frequentare un certo tipo di scuola e università, aspirare a diventare famosa, essere presa più sul serio. Se tutto ciò è già difficile per le donne, bisogna considerare che l’essere nere comporta ancora più difficoltà, poiché l’intreccio di razzismo e sessismo con anche altre realtà porta a una vita resa quasi invivibile dal pensiero normato della società.

Il femminismo è un movimento, un’ideologia e una pratica che aspira a stravolgere la normalità, le abitudini, il pensiero millenario della società, e non può permettersi di lottare per entrare nel sistema oppressivo. Non si può pretendere di allargare il tavolo delle decisioni per poi continuare ad affossare le persone perché si ha il potere di farlo, ma si deve puntare alla sovversione, alla rivoluzione e, soprattutto, all’inclusione.

Beatrice

#MeToo: storie di violenza intorno al mondo

Illustrazione di Curious Lauren

Il movimento Me Too è nato nel 2006 per opera di Tarana Burke, un’attivista statunitense, con l’obiettivo di aiutare le persone nella sua stessa condizione di survivor e di costruire una comunità di reciproco supporto contro la violenza sessuale. Solamente nel 2017, però, il movimento ha acquisito grande fama: molte attrici hanno iniziato a denunciare il produttore Harvey Weinstein per molestie e violenze. In particolare, un tweet di Alyssa Milano ha lanciato l’hashtag #MeToo invitando tutt3 l3 su3 followers che erano stat3 molestat3 o che avevano subito abusi a commentare “me too”, “anche io”. In sole 24 ore, l’attrice ha ricevuto migliaia e migliaia di risposte, sia da persone famose che non, lasciando intendere il fatto che moltissime avevano – purtroppo – una storia di questo genere da raccontare e che leggere altre storie simili aveva dato loro il coraggio di condividere anche la propria. Da quel momento, il movimento #MeToo ha assunto una portata globale: è diventato un riferimento per tutte le donne e le persone nel mondo che hanno sperimentato questo tipo di dolore e si è diffuso rapidamente, declinandosi anche a seconda dello stato, della cultura e della storia personale della voce di chi ne parla.

In Francia, l’hashtag è stato tradotto come #BalanceTonPorc (“denuncia il tuo maiale”) a seguito del caso Weinstein, immagine considerata di maggiore impatto (anche se è doveroso precisare che usare la parola “maiale” come insulto è estremamente specista). Nell’ultimo mese, inoltre, è nato il #MeTooInceste per denunciare gli abusi subiti nell’ambito familiare da bambin3. La catena di accuse si è sviluppata a seguito di quella che Camille Kouchner, nel suo ultimo libro, ha mosso nei confronti del patrigno Olivier Duhamel che ha abusato per anni di suo fratello gemello, allora 14enne.

In Giappone, Yumi Ishikawa ha lanciato l’hashtag #KuToo nel 2019 contro l’obbligo che le donne hanno di indossare le scarpe col tacco sul posto di lavoro. I due movimenti sono accomunati dalla difesa dei diritti delle donne che, nello stato asiatico, sono oggetto di discriminazione per l’obbligo di vestirsi in un certo modo, cosa che non accade ai rispettivi colleghi uomini.

Nell’ambito della comunità islamica, la giornalista Mona Elthaway ha raccontato la sua esperienza in merito utilizzando l’hashtag #MosqueMeToo, diventato poi virale. Utilizzandolo, in molt3 hanno raccontato la propria storia di molestie e violenze avvenute durante l’hajj, il pellegrinaggio verso la Mecca, o nei luoghi sacri. Oltre al tabù dell’argomento violenza, molt3 affermano di non aver parlato prima a causa dell’islamofobia dilagante, per non dare al mondo un’altra ragione per odiare chi pratica la loro religione.

Nel 2019 è nato anche il tunisino #EnaZeda, dopo la foto postata sui social da una 19enne che ritraeva un uomo parzialmente nudo in una macchina parcheggiata vicino al suo liceo che si stava presumibilmente masturbando. L’uomo in questione si è poi scoperto essere Zouheir Makhlouf, deputato del parlamento. Questo caso ha portato alla luce numerosissime altre molestie subite dalle donne tunisine che hanno usato proprio questo hashtag per raccontarsi.

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La campagna #MeToo è approdata anche in Cina con l’hashtag #RiceBunny accompagnato dalle emoji di ciotole di riso e conigli che, insieme, si pronunciano “mi tu”. Il cambio di nome è dovuto al fatto di dover aggirare la censura online poiché il primo hashtag, #MeTooInChina, era stato bloccato. L’uso delle immagini e di suoni omofoni sono tecniche che erano già state largamente utilizzate per potersi esprimere liberamente sui social, e grazie a esse anche in Cina molte persone hanno avuto la possibilità di condividere le proprie esperienze di abuso.

In Nigeria, il caso che ha portato a parlare diffusamente di #MeToo è stato quello di Busala Dakolo, violentata due volte da Biodun Fatoyimbo, pastore venerato da migliaia di fedeli. Le sue accuse hanno ispirato una protesta fuori dalla sua chiesa e molte donne hanno iniziato a raccontare le loro storie sui social al grido di #ChurchToo, denunciando la cultura di retaggio fortemente patriarcale che costringe le vittime al silenzio. Infatti, il movimento era iniziato anche prima di questi fatti con l’hashtag #ArewaMeToo che era stato bloccato con l’arresto di una delle sue più importanti attiviste.

Nel 2018, sul modello del #MeToo, in Germania si è diffuso anche il #MeQueer, usato dalle persone queer per denunciare gli atti di violenza, gli insulti e le microaggressioni a cui sono costrette a sottostare quotidianamente. Il discorso, quindi, viene modellato anche in base alla discriminazione che si subisce, ma il meccanismo alla base rimane lo stesso: la solidarietà e l’aiuto reciproco nel raccontare qualcosa che fa tremendamente soffrire.

Questi sono solamente alcuni esempi di come il movimento si sia declinato in molte parti del mondo e in molti altri ambiti. Infatti, se ne potrebbero citare ancora, come l’italiano #QuellaVoltaChe o l’hashtag #YoTambien usato in Messico, Spagna e America Latina. Nonostante questo coinvolgimento globale, però, bisogna ricordare che ci sono state anche delle importanti critiche mosse al Me Too – che ovviamente non sono quelle di uomini bianchi privilegiati che lo definiscono, per esempio, una “caccia alle streghe”. Le critiche serie sono state mosse in un’ottica intersezionale, per cui il movimento dà risalto alle singole esperienze piuttosto che sottolineare la componente sistemica della discriminazione: per esempio, la voce delle persone transgender – le maggiori vittime di violenza sessuale – viene decentrata, mentre quella delle persone disabili sembra essere invisibilizzata data l’assenza di discussione che le riguarda e il fatto che a Hollywood il discorso si è mantenuto più che altro sulle molestie in ambito lavorativo, lo stesso da cui esse vengono spesso escluse a causa della discriminazione abilista.

Il Me Too non è, quindi, esente da problematiche che riguardano la questione del privilegio. Però, nonostante ciò, il modello creato da questo movimento rimane estremamente importante perché, adattato al mondo in cui si vive, alle marginalizzazioni sperimentate e alla cultura in cui si è immers3, la sua componente più importante rimane la solidarietà, l’ascolto dell’altrə, il credere alle sue parole.

Giulia

Il diritto di arrabbiarsi

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La rabbia è una tra le tante emozioni che l’essere umano può provare: è la reazione che abbiamo quando ci si presenta di fronte un’ingiustizia, una minaccia, quando ci sentiamo frustrat3 o delus3, o anche quando rimaniamo impotenti davanti a qualcosa più grande di noi. Compare, infatti, quando c’è qualcosa che non va, quando i nostri bisogni non vengono soddisfatti come dovrebbero, e ascoltarla è importante per capire dove si trova il problema. Oggi, però, la rabbia – più che una reazione naturale – sembra essere un privilegio che pochi hanno la libertà di esercitare, e che sicuramente non appartiene alle minoranze.

Le donne, per esempio, vengono educate fin da bambine a ignorare la propria rabbia, perché considerata un’emozione maschile:

È evidente che tuttora nella società facciamo crescere 3 bambin3 in modi binari e opposti. I ragazzi si attengono a ridicole e rigorose norme di virilità, viene loro inculcata la rinuncia a emozioni femminili di tristezza e paura a favore di aggressività e rabbia come segni di reale virilità. Invece, le ragazze imparano a essere deferenti, e la rabbia è incompatibile con la deferenza. Così, oltre a imparare a incrociare le gambe e a domare i capelli, impariamo a morderci la lingua e a ingoiare l’orgoglio.

Soraya Chemaly, The power of women’s anger

Una donna che non impara a essere sempre accomodante, che combatte per i propri diritti e che – a volte – lo fa anche in maniera aggressiva, viene subito tacciata di essere in balìa delle proprie emozioni, o addirittura dei propri ormoni. “Isterica” è l’aggettivo che viene più utilizzato in questi casi e che è stato usato per secoli per ostacolare e patologizzare la rabbia femminile: ancora oggi la donna è vista come troppo emotiva, fragile, infelice perché non fa abbastanza sesso possibilmente con un uomo e possibilmente suo partner fisso, troppo sensibile, che non può essere presa sul serio. E quindi, oltre alla negazione di molti dei propri diritti, essa si vede tolta la possibilità di rivendicarli arrabbiandosi, perché la sua voce deve essere sempre pacata, gentile e non deve mai chiedere troppo.

Le donne nere, poi, hanno anche un altro tipo di esperienza perché soggette allo stereotipo dell’Angry Black Woman che le vede come costantemente aggressive, instabili e ostili. Per esempio, è famoso l’episodio del 2018 in cui Serena Williams venne penalizzata alla finale dell’US Open. La tennista, tentando di difendersi dall’accusa di aver barato, si fece prendere dalla frustrazione e alzò i toni con l’arbitro: in seguito, molte testate descrissero il tutto come un capriccio per la mancata vittoria, travisando completamente il tentativo di Williams di difendere la sua integrità. Molte donne nere rividero in questo fatto la propria esperienza: per loro, reprimere la rabbia è ancora di più fondamentale importanza per essere prese sul serio, e questo le porta a sperimentare una marginalizzazione ancora più acuta che le pone nella posizione di non poter ascoltare sé stesse e le proprie sensazioni. Costrette a vivere la discriminazione sia da donne che da persone nere, corrono inoltre il rischio che le loro lotte vengano invisibilizzate e rimangano non considerate ancora più di quelle delle loro controparti.

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Infatti, l’espressione della rabbia non è facile anche mettendo da parte la discriminazione di genere: le persone bianche, in generale, spesso condannano la rabbia delle persone nere e di colore e il modo in cui esse decidono di rivendicare i propri diritti. Basti pensare alle proteste dello scorso anno negli USA contro la violenza della polizia: i pochi atti vandalici – rispetto al numero molto più grande di proteste pacifiche – hanno avuto più risonanza delle ingiustizie che si cercava di combattere. Molte persone bianche si sono sentite legittimate a giudicare la rabbia di chi stava protestando, invece di soffermarsi sulle ragioni della protesta stessa, rifiutando di tenere una posizione di ascolto e arrogandosi il diritto di definire giusto o sbagliato qualcosa che non apparteneva loro.

Questo esempio di dinamica è – purtroppo – molto frequente: troppo spesso le persone che appartengono a gruppi oppressi vedono la propria rabbia minimizzata, condannata o cancellata da chi non fa esperienza di quelle stesse oppressioni. È facilissimo per unə attivista queer sentirsi dire che “ci sono cose più importanti a cui pensare” del riconoscimento per cui sta lottando, per una persona grassa che è lei a dover adattarsi alla società e non il contrario, per una persona con problemi di salute mentale che sta esagerando o che “è tutto nella sua testa”. La rabbia rimane completamente legittima, insomma, solamente per gli uomini in posizione di privilegio, poiché profondamente legata al concetto di mascolinità e vista come simbolo di virilità.

In una società che mira a essere paritaria per tutt3 arrabbiarsi non deve solamente essere un evento slegato da ogni stereotipo dannoso, ma anche un diritto inalienabile: far valere le proprie ragioni di fronte a un’ingiustizia significa, in primis, avere la possibilità di ascoltare sé stess3 e proteggersi, e poi avere di fronte qualcunə dispostə – a sua volta – ad ascoltare e ad accogliere. La rabbia è spesso simbolo di cambiamento e rivoluzione: iniziamo a darle retta.

Giulia

Le fallacie del capitalismo

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Al di là di tutte le religioni che esistono nel mondo, una cosa oggi sembra accomunare tutti i popoli: la venerazione del denaro, il desiderio del suo possesso e la necessità di ostentarlo. Per arrivare ad averne sempre di più, ogni giorno si assistono ad episodi di violenze, di eredità, di distruzione, di sopraffazione, che contribuiscono ad alimentare un sistema economico-sociale in cui le decisioni sono prettamente economiche e ricadono in larga misura su quelle sociali, culturali e anche artistiche. Non importa cosa si dice, quante persone lo dicono e quanto sono necessari i bisogni delle persone, ciò che conta più di ogni cosa è quello che possiedi, quanto denaro hai e com’è possibile continuare ad averne sempre di più. Se negli ultimi anni la ricchezza mondiale è sempre più aumentata e si è allargato il bacino delle persone che rientrano nelle posizioni più alte dei privilegi economici, l’ineguaglianza non ha accennato affatto a diminuire. Nel 1963, secondo i dati dell’Urban Institut, le famiglie più ricche avevano sei volte la ricchezza di quelle medie, mentre nel 2016 sono arrivati ad averne ben dodici volte di più: inoltre, il reddito delle prime, in cinquant’anni, è aumentato quasi del 90% mentre le seconde non sono arrivate nemmeno al 10%. I dati di inequality.org confermano questa tendenza secondo cui l’1% più ricco possiede il 44% della ricchezza mondiale, e se si somma il patrimonio dei 10 uomini più ricchi del mondo si supera quello di dieci paesi del mondo, tra cui Svizzera, Arabia Saudita e Svezia. E mentre si insegna che si è artefici del proprio destino, che con impegno e dedizione si può arrivare ovunque nel mondo, la realtà dei fatti è che il capitalismo è una dittatura altamente oligarchica, in cui il potere è stato dato a una dinastia di uomini che hanno ereditato i propri mezzi di sostentamento per lo più tramite sfruttamento, corruzione e oppressione.

Secondo Adam Smith il mercato da solo, senza essere governato dallo Stato, avrebbe prodotto la ricchezza per tutt3, perché se ognunə avesse perseguito il proprio interesse, allora l’intera società avrebbe beneficiato di questa libertà concessa all’individuo di crearsi da solo. Il liberismo, su cui si basa l’intero sistema economico capitalista, è oggi ancora visto come l’unico metodo possibile che può convivere con la modernità attuale: la “mano invisibile” che lo rende efficiente, però, sembra essere molto più reale di quello che si teorizzava. Liberismi e neoliberismi (cioè corrente che auspica un limitato intervento statale per favorire una migliore concorrenza nel mercato) inoltre, come dimostrano i dati e le condizioni sociali ed economiche della maggior parte della popolazione mondiale, non hanno portato alcun benessere se non a coloro che già lo possedevano: inutile propinare la storia secondo cui il business che prospera nasce da un’idea vincente, perché non è affatto così.

All’inizio degli anni ’60, il filosofo Pierre Bourdieau parlava di capitale economico (disponibilità prettamente finanziaria dell’individuo) a cui doveva affiancarsi la nozione di capitale sociale (le relazioni interpersonali dedite all’accrescimento del reddito, cioè quello che oggi può essere chiamato networking), di capitale culturale (diviso tra incorporato, istituzionalizzato e oggettivizzato) e di capitale simbolico (cioè il valore associato alla proprietà dei primi tre capitali, che divide la società tra dominati e dominanti). La domanda da porsi è: se qualcunə dovesse nascere in una famiglia con un’entrata che basta solo al sostentamento (a volte anche meno), che non permette ləi di studiare sufficientemente o di avere un’istruzione adeguata, che non fa in modo che ləi conosca altre persone che potrebbero portarəi benefici anche in termini economici, che non può viaggiare, avere tempo libero (e “una stanza tutta per sé” in cui riflettere e farsi venire l’idea del secolo che əl permetta di essere miliardariə), sarebbe giusto farəi credere che è colpa sua? Che la sua condizione è dovuta alla sua pigrizia? Al fatto che non ha fatto abbastanza o che è poco intelligente o che è inferiore allo Steve Jobs di turno solo perché semplicemente non ha avuto la possibilità economica, culturale e sociale che ha avuto ləi?

E oltre a tutti i fattori economici, sociali e culturali che coesistono nel decidere il destino di una persona media, rilevante è poi la questione di genere, sessuale, razziale. Negli USA, secondo gli ultimi dati del 2020, una famiglia media nera possiede il 2% della ricchezza di una famiglia media bianca, mentre 3 latin3 ne possiedono il 4%. In Europa, studi dimostrano come la situazione lavorativa per l3 stranier3 sia molto più difficile di quella de3 cittadin3 europe3: sono molto più portat3 a subire atteggiamenti scorretti, e ad avere come lavoro principale uno che l3 occupi meno di 20 ore settimanali. Gli svantaggi aumentano ancora di più per le donne migranti, di prima o seconda generazione: trovano molto meno lavoro delle donne europee (che già comunque hanno una percentuale più bassa degli uomini, dovuta soprattutto al genere e al fatto che essere anche madri sia un impedimento molto importante) con una percentuale di disoccupazione che si aggira intorno al 14%, rispetto all’11% degli uomini migranti e all’8,4% delle donne europee. Studi e dati dimostrano come esse, inoltre, siano molto più portate a discriminazione, segregazione occupazionale e a una concentrazione verso lo stesso tipo di lavoro (oltre il 65% lavora nei servizi domestici, pulizia, etc. pur essendo qualificate per altri lavori). La situazione per le persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ è anch’essa discriminatoria in Europa, con una persona su cinque che viene penalizzata per il suo orientamento sessuale o di genere: in Italia inoltre, secondo i dati OCSE, la discriminazione verso le persone transgender è più facilmente tollerata, e una persona percepita come appartenente alla comunità LGBTQIA+ è molto meno propensa a ottenere un colloquio di lavoro. Per le persone con disabilità i dati variano considerevolmente stato per stato, passando, per esempio, dal 45,2% delle persone disabili occupate della Turchia al 92, 9% in Lussemburgo: in generale, nel continente europeo, esse sono più propense ad avere un lavoro part-time (perché “non hanno trovato un lavoro full-time”), preferibilmente da casa, e guadagnano molto meno dell3 loro collegh3 senza disabilità.

I dati sopracitati dimostrano dunque le fallacie dei discorsi dei capitalisti sul fatto che siamo tutt3 artefici del nostro destino, che è giusto che le azioni di Jeff Bezos, durante una pandemia globale, siano aumentate dell’80%, portandolo a un patrimonio netto di oltre 200 miliardi di dollari, perché lui ha avuto l’idea geniale di Amazon, perché lui merita di possedere quello che risulta essere un quinto del PIL di un paese in via di sviluppo come la Corea del Sud, ad esempio. Tutto questo mentre i suoi lavoratori vengono quotidianamente incentivati alla competizione tramite algoritmi disumani e imbarazzanti, che fanno sì che molti di loro non riescano nemmeno ad avere una pausa pranzo, o anche solo andare in bagno in tranquillità.
La ricchezza dei potenti non viene dalla loro capacità di innovarsi e innovare ma dalla loro eredità economica, sociale e culturale, e soprattutto dalla produzione dei loro lavoratori: i 200 miliardi di dollari di Bezos, senza i lavoratori Amazon, non esisterebbero.
Distruggere il capitalismo significherebbe distruggere un sistema che si basa sullo sfruttamento dei lavoratori e la discriminazione razziale, sessuale, di genere, sanista e classista che porta oggi miliardi di persone a sottostare e ad accettare condizioni inumane di lavoro, facendo loro credere di meritare la loro situazione, e non dichiarando mai che il dire no a certe cose è un privilegio, non una scelta.

Beatrice

La prigione delle minoranze: oppressione e discriminazione

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L’articolo 1 della Legge sul trattamento penitenziario, aggiornata il 9 gennaio 2019, recita:

1. Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose, e si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione.

2. Il trattamento tende, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale ed è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni degli interessati.

3. Ad ogni persona privata della libertà sono garantiti i diritti fondamentali; è vietata ogni violenza fisica e morale in suo danno.

Quello a cui si assiste nella società (e spesso anche nella politica), è però tutt’altro: si invoca la tortura, la vendetta, la legge del taglione per punire coləi che ha sbagliato, senza sconti o benefici, andando contro tutto quello che in questi secoli si è raggiunto attraverso la razionalità e il rispetto della dignità umana. Cesare Beccaria si chiedeva: “Quale può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello della sovranità e delle leggi… esse sono la somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno. Chi mai potrebbe lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo?”. L’istituzione della prigione, nata insieme alla società civile, non si è quasi mai trovata a essere il luogo adatto agli scopi rieducativi per cui negli ultimi secoli è stata considerata: essa viene vista come il punto di arrivo del criminale, il luogo punitivo in cui deve essere rinchiusə chi viene giudicatə degnə della privazione di ogni libertà, che deve essere punitə in modo proporzionale al dolore causato, quando in realtà l’obiettivo dovrebbe essere quello di dare a tutt3 la possibilità non di essere perdonat3, ma di imparare ad autogestirsi nella legalità e nel rispetto di norme e persone. Basti pensare all’intervista del direttore del carcere di Halden, in Norvegia, che parlò quando molt3 rimasero scandalizzat3 dalle condizioni di vita del terrorista Breivik che uccise 77 persone nel 2011: “[…] qui non esiste l’ergastolo, il massimo della pena è 21 anni, dunque ognuno potrebbe diventare il mio vicino di casa. E io non voglio un vicino rabbioso, che ha passato anni rinchiuso nell’ozio”. Infatti, guardando i dati statistici, si può notare come il sistema carcerario nostrano non sia esattamente quello più efficiente: in Norvegia solo il 20% dei detenuti compie nuovamente un’azione illegale, contro il 60% degli americani e il 68% degli italiani.

Analizzando la situazione carceraria femminile, che corrisponde all’incirca al 4-5% del totale, le condizioni non cambiano molto: c’è certamente meno violenza rispetto ai carceri maschili, la cui principale differenza verte soprattutto sul sistema di sicurezza (le prigioni femminili più “dure” corrispondono, infatti, ai carceri di media sicurezza maschili), ma i diritti umani vengono calpestati anche qui. La prigione è un sistema creato soprattutto da uomini e per uomini (visto che corrispondono al 95% della popolazione carceraria), e il fatto che le donne siano una minoranza porta a mancanze strutturali e sociali molto invalidanti. Secondo il CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti) del Consiglio d’Europa, infatti:

“è importante considerare numerosi fattori quando si tratta di donne detenute, in particolare la forma fisica, sessuale e psicologica di violenza, inclusa la violenza domestica, di cui potrebbero aver sofferto prima dell’imprigionamento, un elevato bisogno di cure mentali, un alto livello di dipendenza da droghe o alcol, assistenza sanitaria specifica (ad esempio, di tipo riproduttivo), assistenza per loro figl3 e/o famiglie, e l’alta probabilità di vittimizzazione post-rilascio e abbandono da parte delle loro famiglie”.

Essendo diventata poi la prigione una società a sé stante, anche qui il patriarcato non ha dovuto faticare molto per primeggiare: spesso alle detenute vengono assegnate le attività appropriate a loro in quanto donne e vengono anche escluse dalla formazione generale e professionalizzante dedicata agli uomini. Inoltre, vengono messi in discussione l’accesso continuo ai bagni, le cure preventive (screening per tumori al seno, utero, etc), la fornitura di pillole contraccettive e abortive, le cure adeguate per la salute mentale, tutti principi alla base dei diritti civili delle donne che non dovrebbero mai essere calpestati, anche se si tratta di persone che hanno fatto del male.

Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Tra i trattamenti più disumanizzanti del sistema carcerario c’è la discriminazione istituzionalizzata verso le persone transgender: secondo la legge comune, altamente binaria, esse vengono per lo più assegnate alle prigioni secondo il loro sesso biologico alla nascita, portando a violenze fisiche, verbali e psicologiche di grande rilevanza ovunque nel mondo, che alcune volte vengono risolte attraverso il confinamento e l’isolamento delle persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ (si pensi alla modifica nel 2018 da parte di Trump della legge di Obama che aveva fatto un passo avanti verso questo diritto umano), togliendo loro anche il diritto di partecipare alla vita comunitaria della prigione. Altra fondamentale questione è quella che riguarda le persone con disabilità: nelle prigioni la percentuale di detenut3 in questa condizione (sia fisica che mentale) è molto più alta di quello che generalmente si pensa. Ciò che deve derivare dallo studio di questi dati è sicuramente una maggiore attenzione ai problemi e alle relative soluzioni da apporre: una maggiore inclusività degli spazi, controlli più serrati, cure più specifiche e adeguate e trattamenti adatti a tutt3 sia da parte del personale che dell3 altr3 detenut3. Trattamenti molto discutibili – come l’isolamento – non aiutano di certo le persone, men che meno quelle affette da disturbi/problemi/malattie mentali, che vengono molto più manipolate dal resto della popolazione carceraria (e spesso anche dalle guardie).

In generale, se oggi dovessimo considerare le parole di Dostoevskij, secondo cui “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, possiamo constatare di essere tremendamente lontan3 dal senso di giustizia e verità di cui ci crediamo essere portavoce. Se l’istituzione del carcere mostra sempre più il suo fallimento come luogo di educazione è anche perché viene sempre più visto nell’immaginario comune come luogo dedito a violenza (considerata necessaria contro individui non più visti come tali) e punizione, che ovviamente portano a tassi di recidività altissimi. Ma se oggi ci trovassimo ad avere come vicinə di casa unə detenutə che per anni ha vissuto in un qualsiasi carcere nel mondo, come ci sentiremmo? E, soprattutto, come si sentirebbe ləi?

Beatrice

Parlare di salute mentale è importante: ma come?

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Le malattie mentali sono spesso soggette alla disinformazione e ai pregiudizi: si miscalcola il loro grado di pericolosità, si sottovalutano, si invalidano, nei casi più gravi si arriva addirittura a non considerarle vere e proprie malattie, categorizzandole come capricci o invenzioni. Vengono accantonate e messe da parte, come se non fosse importante parlarne, come se non meritassero la dignità e il rispetto che dovrebbero avere. Certo, sono disagi complicati da comprendere, affrontare e accettare: non c’è ancora una scienza completamente esatta e profetica a tal riguardo, ed è anche per questo che c’è una misconcezione dilagante che porta alla creazione di un vero e proprio stigma sociale verso chi ha questo tipo di problemi e soffre giorno dopo giorno. La persona in questione può arrivare ad avere paura di lasciarsi aiutare solamente per non essere considerata “diversa”, può far finta di nulla finché il problema non diventa così grande da non potersi più risolvere, può anche arrivare a non riconoscere la sua malattia, sminuendola e riducendola alla dimensione del sentirsi sbagliata come essere umano. Ci sono tanti fattori che contribuiscono a formare questa patina che divide il malessere in sé da come viene visto, e ci sono anche molti modi per poter riuscire pian piano a scalfirlo e poi a trapassarlo. In particolare, molto importante è il linguaggio e come esso viene usato in ogni situazione del genere.

Molti nomi usati per le diagnosi di malattie, infatti, sono paradossalmente sempre più entrati nel nostro vocabolario quotidiano, quasi normalizzando l’esperienza di questi disagi mentali a scapito delle persone che sono davvero costrette a sperimentarli. Un esempio su tutti è l’“ansia” (ansia sociale, ansia generalizzata, attacchi d’ansia) che si è ormai sostituita al più comune e leggero nervosismo, andando a debilitare e indebolire la concezione di chi la vive come un problema davvero invalidante, e facendo correre il rischio di non essere presi sul serio quando si ha il coraggio di parlarne. Molto comune è anche il caso del dirsi “depress3” quando si è tristi o giù di morale, andando completamente a fraintendere il concetto di depressione, mostrandola come uno stato d’animo più che una malattia che può e deve essere curata. Inoltre, si parla molto spesso di “trauma” o di essere “traumatizzat3” di fronte a degli inconvenienti, degli eventi inaspettati o delle scoperte un po’ scioccanti, quando invece i traumi sono eventi che hanno fortissime ripercussioni psicologiche e che la mente non dimentica pochi minuti dopo.

Si può continuare con svariate terminologie: per esempio c’è chi dà del “bipolare” a qualcuno che ha avuto un momentaneo sbalzo di umore, riducendo uno dei disturbi mentali più invalidanti per la persona a un mero e innocuo sintomo, o chi dà del “borderline” a chi fa qualcosa di assurdo o sopra le righe, etichettando un intero disturbo di personalità, con tutte le sue innumerevoli e difficili sfaccettature, come “esagerato“. Oppure, ancora, si parla di “OCD” quando si vede una persona particolarmente organizzata e ordinata, non considerando che chi soffre della sindrome ossessivo-compulsiva vive costantemente una lotta per provare a reprimere le sue compulsioni che compromettono il normale funzionamento nella vita quotidiana. Ultimamente, poi, va molto di moda dare del “narcisista” a una persona che attua comportamenti manipolativi, che ferisce, che compie abusi: questa associazione è pericolosa, perché il disturbo narcisistico della personalità viene automaticamente visto come una vergogna, qualcosa da nascondere perché da condannare, quando invece molte di quelle azioni possono essere commesse da chiunque, a prescindere dal proprio stato mentale.

Una menzione la meritano anche i disturbi alimentari, come quando viene chiamata “anoressica” una persona particolarmente magra. In questo caso, la malattia viene tralasciata completamente, e viene associata al puro e semplice aspetto fisico, sottintendendo che l’anoressia corrisponda alla forma dell’ arbitrariamente eccessiva magrezza (perché chi siamo noi per sapere a prima vista se una persona sia in salute o meno?), cosa che può danneggiare moltissimo chi ne soffre e le nozioni che vengono divulgate al riguardo. Si dà della “bulimica” anche a una persona che, secondo il proprio parere, mangia molto, riducendo un disturbo a un comportamento alimentare giudicato eccessivo in maniera completamente soggettiva (perché, ancora, chi siamo noi per sapere quanto tutt3 hanno bisogno di mangiare e per stabilire degli standard universali?).

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In maniera più generale, troviamo anche l’uso di espressioni come “ti devi far vedere da unə bravə”, “sei da manicomio”, “a quellə serve un TSO” come insulti per chi sembra avere un pensiero o un comportamento che devi dalla norma sociale. Nel primo caso, si può osservare come l’andare da unə psicologə, psicoterapeuta o psichiatra – cosa che possono benissimo fare tutte le persone che sperimentano una particolare situazione di stress mentale o che vogliono semplicemente capire delle cose su sé stess3 – sia ancora ampiamente stigmatizzato: sono sempre “pazz3”, “folli”, “schizzat3” quell3 che hanno bisogno di farsi visitare, quell3 che, per i loro problemi, devono solo essere patologizzat3 invece che viste come persone con un problema. Quando si parla di manicomio e TSO, invece, c’è un forte rimando alla segregazione, al nascondere dalla vista quello che non va bene, cosa che le persone con disturbi mentali hanno vissuto per secoli negli ospedali psichiatrici e che vivono ancora, sebbene dei passi avanti ci siano stati. Il punto in comune, qui, è la deumanizzazione di chi soffre di disturbi mentali. Il termine stesso “malatə mentale”, infatti, è usato in modo dispregiativo nel linguaggio quotidiano. Se si dice qualcosa con cui altre persone non sono per niente d’accordo, è facile sentirselo dire, anche solo per ridere. Questo tipo di malattie, infatti, oltre allo stigma subisce anche una ridicolizzazione: la persona affetta da disturbi psichici viene derisa, vista come non normale, rappresentata come un mero stratagemma comico, e la sua sofferenza viene così ridotta a una controfigura che ha il solo scopo di provocare risate.

Questi sono solo alcuni esempi dei modi in cui il linguaggio possa essere responsabile dell’influenza su come vengano viste le malattie mentali nella società e, conseguentemente, come venga vistə chi vive questo tipo di sofferenza. Le parole contribuiscono molto alla formazione di stereotipi che rendono sempre più complicato il prendersi e l’essere presi sul serio, il sentirsi accettat3 e non fuori dal comune per i problemi che si devono affrontare. Per combattere lo stigma attaccato alle malattie mentali la cosa più importante è, certamente, parlarne, ma ciò non toglie che bisogna farlo nel modo giusto, validando questo tipo di esperienze e non sminuendole in questo modo. Le parole sono importanti.

Giulia

Amatonormatività: tutto quello di cui abbiamo bisogno è scegliere

Foto di Patricia Román da Pixabay

“Cresci, trova qualcunə con cui passare la vita, sposati, creati una famiglia”: la ricetta della felicità che ci viene tramandata da secoli sembra essere questa. Niente risulta più importante della costruzione di una famiglia, dell’amore romantico (monogamo), della persona che si ama: tutto ciò che è al di fuori è secondario, quasi superfluo. Cosa siamo se non i nostri rapporti? Cosa vogliamo di più se non una relazione romantica?
Ogni cosa sembra spingerci a pensare che non possiamo non perseguire questi scopi nella vita, che sia impossibile rifiutare questo tipo di felicità, perché non c’è assolutamente niente di più bello che svegliarsi accoccolat3 la domenica mattina con ələ tuə amatə, fare l’amore e poi andare a controllare ələ bambinə che poi si metterà a saltare sul lettone. C’è un’immagine più felice di questa, secondo l’immaginario comune?
Il nostro valore pare essere legato alla nostra capacità di trovare qualcunə; il matrimonio segna il passo fondamentale per essere matur3, portando molte persone a provare senso di colpa e frustrazione per vedere coetane3 “realizzarsi” mentre loro no; e l’amore sembra portare a una costante ricerca dell’anima gemella, l’altra metà di noi. Questa fobia verso chi è single si traduce in una costante pressione a sentirsi in dovere di considerare questa ricerca come primo scopo della vita, semplicemente perché è normale volere l’amore (sempre quello romantico e sempre romantico secondo gli schemi sociali).

Nel 2012, in “Minimizing marriage: Marriage, Morality and the Law”, Elizabeth Brake, professoressa all’Università dell’Arizona, conia il termine “amatonormatività” spiegando che la parola

“consiste nel supporre che una relazione amorosa centrale ed esclusiva sia normale per gli esseri umani, in quanto essa è obiettivo universalmente condiviso, e che questo tipo di relazione costituisca la norma, in quanto dovrebbe essere preferito ad altri tipi di relazione. Il presupposto che le relazioni più importanti debbano essere di tipo matrimoniale o amoroso svaluta le amicizie e altri tipi di relazioni affettive […]”.

Questo tipo di pensiero coinvolge ogni persona di questa società: c’è chi sceglie di mettere la relazione romantica al primo posto in modo consapevole e chi no, chi non si adegua sentendo di essere sbagliatə e chi no. Oltre a escludere chi vuole semplicemente restare single, questa narrazione discrimina fortemente le persone aromantiche, cioè chi non sperimenta (in maniera parziale o totale) interesse romantico, ma anche le persone appartenenti a culture in cui il matrimonio e le relazioni non si basano sull’amore romantico, le non monogamie etiche e il poliamore. Sempre secondo Elizabeth Brake, infatti, il poliamore può essere un metodo alternativo e sovversivo all’amatonormatività, in quanto distrugge la visione esclusiva e possessiva della coppia e del matrimonio, aprendo la relazione a più persone e sradicando la concezione dell’avere una metà di sé da mettere all’apice della vita con più relazioni non gerarchiche. Infatti, sebbene tutt3 sappiamo che possiamo amare amic3, familiari, animali, idee, passioni, ci è stato insegnato che l’amore è unico, esclusivo, speciale, e chi prova a vedere le relazioni in modo diverso, chi cerca di non dare la priorità all’amore romantico, può sentirsi esclusə ed emarginatə da un mondo che sembra bombardarci con un unico messaggio.

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Anche per quanto riguarda le lotte per i diritti civili della comunità LGBTQIA+, uno degli slogan più famosi e utilizzati per diffondere il messaggio è “Love is love“, che però focalizza l’attenzione sul validare la relazione romantica legata all’orientamento piuttosto che l’orientamento in sé: è giusto lottare per la libertà di amare chi si vuole, ma l’orientamento sessuale deve essere riconosciuto a prescindere da una possibile relazione che ne può derivare. Si può essere, per esempio, sia gay che aromanticə, eppure si continua a usare un messaggio escludente verso una parte (seppur piccola) della comunità, e queste fallacie anche all’interno della comunità LGBTQIA+ riguardo l’asessualità e l’aromanticità sono principalmente dovute alla visione culturale amatonormativa (e allonormativa), secondo cui non si può che dipendere da qualcunə al di fuori, e, se non si desidera questo tipo di relazione, allora si è sbagliat3. Il nostro orientamento sessuale e relazionale viene sempre visto come dipendente dall’esperienza che abbiamo avuto al riguardo (da qui assunzioni agghiaccianti come “dici questo perché non hai mai provato”, “sei lesbica perché non hai mai provato il sesso con un uomo”, “sei asessuale perché non l’hai mai fatto con qualcunə bravə a scopare” e così via). Se non si prova, se non si ama, se non si tocca con mano la questione, allora non si esiste, non si sta pensando nel modo giusto, quando invece la validità di ciò che si sente di essere deve essere riconosciuta e rispettata a prescindere da tutto.

Oltre a tutti i danni che l’amatonormatività crea nelle persone, in realtà questa cultura va a rovinare anche la coppia monogama, simbolo di essa, in quanto crea pesanti aspettative sulla relazioni, pone regole già scritte su cui la maggior parte delle coppie nemmeno discute, e fa vedere ələ partner non solo come tale, ma anche come amicə, confidente, familiare, coinquilinə, supporto, il porto sicuro dove rifugiarsi. Molte relazioni vengono rovinate perché si carica l’altrə di un peso che deve riassumere tutti quei tipi di relazioni ritenuti inferiori ma di cui si continua ad avere bisogno: ələ partner diventa l’insieme di persone di cui ci si priva perché è giusto così, perché è ovvio tenere di più a ləi piuttosto che ad altr3. E da qui si segue anche la scala mobile relazionale, prestabilita anch’essa dalla società, secondo cui prima ci si conosce, poi ci si frequenta, ci si fidanza, si va a convivere, ci si sposa e si fa i figl3. L’amatonormatività fa dare tutto per scontato e può rendere ciò che in teoria è una scelta personale frutto della collettività, della storia patriarcale, di una visione poco ampia in cui, se non si rientra, porta a sentirsi in errore.


L’amore e la felicità possono essere ovunque, non solo nei rapporti interpersonali e, soprattutto, non solo in quelli romantici: sono in tutti i luoghi in cui ci sentiamo di poter riposare, dove riusciamo a chiudere gli occhi, sorridere e sentire che è esattamente così che deve andare. Basta cercare di sradicare i dogmi, liberarsi delle catene sociali e vedere le cose da un’altra prospettiva: quella della verità, la nostra.

Beatrice